Parlare di Woodstock è difficile. Quei tre (in realtà furono quasi quattro) giorni di "pace, amore e musica rock", dopo quasi cinquant'anni, sono inevitabilmente entrati nel mito. Già le premesse indicano che si è trattato di un avvenimento straordinario: quel che doveva essere un festival di provincia a due ore di macchina da New York (infatti, a causa di problemi di organizzazione, in realtà si tenne a Bethel, nella contea di Sullivan, a 70km da Woodstock), si trasformò, vista la mole di persone, nel più grande festival della musica rock. Non è dato sapere il numero preciso dei partecipanti: previste, dagli organizzatori, al massimo 50.000 persone, i numeri oscillano tra i 400.000 e il milione di presenti, in un coro di ribellione pacifica, distorto dalle chitarre elettriche e da stupefacenti quali LSD e cannabis, mosso da cuori caldi e vibranti percussioni.
Lo spettacolo fu inaugurato da Richie Havens, alle 17:07 di venerdì 15 agosto; l'esibizione di Jimi Hendrix (che insistette per chiudere la scaletta) e dei suoi Gypsy Sun and Rainbows, terminò la manifestazione il lunedì verso le 11. In totale furono 32 le esibizioni, tra le quali, oltre a quella del già citato Hendrix, quelle di altri mostri sacri della psichedelia e del rock, come Joan Baez, Creedence Clearwater Revival, Janis Joplin, Jefferson Airplane, The Who, Ten Years After, Grateful Dead, Joe Cocker, Santana. Fa impallidire l'idea che, per varie ragioni (tra cui rifiuti piuttosto polemici), artisti del calibro dei Doors, Led Zeppelin, Jethro Tull, Frank Zappa e Bob Dylan avrebbero potuto aggiungere il loro nome alla lista.
Dall'esibizione di Joan Baez incinta di sei mesi alla memorabile interpretazione di With a Little Help From My Friends da parte di Joe Cocker (cui seguirono tre ore di pausa a causa di un forte temporale), fino all'ormai "classica" distruzione della chitarra di Pete Townshend degli Who, per non parlare del pubblico, indifferente alla scarsità di cibo e acqua vista la serenità e la fratellanza che si respirava: numerosi sarebbero gli aneddoti da raccontare, che la stampa statunitense di quei giorni tentò di distorcere, volendo presentare quel concerto come una manifestazione dai toni quasi violenti. E in un certo senso, per quanto in maniera figurata, lo fu: il momento culminante di tutta Woodstock, dinnanzi a un pubblico ormai ridotto a "sole" 200.000 persone, giunse con la dissacrante interpretazione dell'inno statunitense, The Star-Spangled Banner, ad opera di Jimi Hendrix. La leggendaria Stratocaster bianca, rigorosamente destra pur essendo lui mancino, che ruggisce distorta e furiosa l'inno americano, schernendolo, denunciandone le violenze del governo sia nella politica interna, conservatrice, che in quella estera (sono gli anni della Guerra in Vietnam) rappresenta l'immagine simbolo che chiude quei tre giorni, quella che più di tutte si è fissata sull'immaginario collettivo. Dopodiché ancora pochi minuti di musica, giusto il tempo di un'improvvisazione e di due classici come Purple Haze e Hey Joe, e il concerto finisce - e con esso il sogno di quelle migliaia di giovani, che non si accorsero di vivere in prima persona l'apice del movimento Sessantottino.
Di Woodstock se n'è parlato e se ne parlerà ancora molto. Però quello che sembrava un punto di partenza si rivelò un punto di arrivo: proprio come la cima della montagna segna l'inizio della discesa, così gli anni successivi si caratterizzarono per un acuirsi delle lotte, che assunsero sempre più connotazioni politiche, perdendo dunque quella spontaneità e semplicità che, di fatto, fecero la magia del Festival di Woodstock.